Nel mio cuore non c’è spazio per l’odio e il rancore. Forse sono sbagliata, mio caro amico virtuale.
Tendo a lasciarmi le zavorre strada facendo, bramando una vita serena, una serena vecchiaia: credo di meritarmelo dopotutto.
Non so se devo ringraziare le brume nettuniane del mio inconscio, che rendono i ricordi più atroci. Quei ricordi che annichilirebbero anche le persone più strutturate, rendendole fotogrammi sfocati, come la vista di un miope sprovvisto di occhiali.
Svegliata da un mal di testa e da uno standardizzato buongiorno confezionato come bacio perugina, mi ero ripromessa di mantenere la calma, e lo sono stata.
Ho meditato su quei sentimenti che puntualmente risvegliano più che un ricordo la sensazione. La sensazione di essere parcheggiata, non apprezzata e valorizzata senza eccessi.
Ci sono cose che l’istinto di sopravvivenza tende a sviluppare, e io “sopravvissuta”, metaforicamente, a un padre violento, ho sviluppato l’osservazione e l’analisi dell’area circostante, le emozioni e le parole come fanno pazzi e gli animali.
Quando sono andata via di casa, mi sono sganciata dalla zavorra più pesante, riappropriandomi della mia individualità: ho impiegato anni, tanti per disinnescare tutti quegli atteggiamenti tossici e autopunitivi che ho assorbito e respirato per vent’anni. Non ti nascondo mio caro amico virtuale che la mia mente è ancora piena di quelle trappole: le trappole che attivano le ferite del rifiuto e dell’umiliazione.
La mia mente e il mio cuore sono sempre disposti ad accogliere un’anima buona, una richiesta di aiuto senza pretendere nulla in cambio, dare il giusto consiglio, anche con severità quando serve: tante sono state le volte in cui sono stata fraintesa e mal giudicata. Non mi rimprovero nulla e non rimprovero nulla, odio le dita puntate, qualsiasi direzione puntino.
Non me l’ha insegnato nessuno che l’odio e il rancore rendono statici, pesanti e bloccati. Forse devo ringraziare Comasia che in tutti questi anni ha sussurrato alla me bambina e anche Donata; regina delle umiliazioni, abbandonata dal marito per un matrimonio parallelo: da un genero ingrato che non l’ha ritenuta inadeguata nel suo ruolo accuditrice, e di un figlio che l’ha messa alla porta come un cane vecchio che non era più in grado di controllare gli orifizi.
La ringrazio perché sapeva fare un passo indietro e toglieva il disturbo quando non era desiderata. Così ha fatto, quando ha capito che non aveva più un posto tra i rancorosi e i pieni di odio.
Sono la figlia di queste due eroine, sono nata per riscattare loro e tutta la mia genealogia, sono il matto, il viandante. Nel mio fagotto tanta nostalgia per qualcosa che non ho avuto, che non ho conosciuto: ma anche ricco di tanta speranza per un futuro migliore. E il potere dei sogni, quei sogni che fungono come unguento su ferite profonde che si riacutizzano.
Sono l’uomo di me stessa, non bramo un compagno al mio fianco, né tanto meno un marito. Io sono libera da tutti quegli stereotipi che ingabbiano in illusioni e idealismi da ragazzine.
Sono qui e questo è un promemoria a non cedere alla tristezza e alla sensazione di rifiuto, io non sono sola. Non mi sento sola e mi basto, io mi amo e nessuno potrà amarmi come mi amo.
Passo e chiudo e alla prossima.